Il meticciato culturale secondo Alfonso Stiglitz
Alfonso Stiglitz l’archeologo oristanese laureato in lettere e specializzato in archeologia, nella sua ricerca introduce il concetto di meticciato culturale: tra Fenici e Nuragici che si incontrano lui propone una riflessione sul ruolo politico dell’archeologia e della ricostruzione storiografica.
Nel 1976 era al suo primo scavo e da giovane, trasformandosi via via in archeologo con gli scarponi, sceglie di diventare archeologo comunale, figura rarissima, lavora nel comune di San Vero Milis, piccolo ma straordinariamente ricco di tracce del passato.
Oggi dichiara di essere preoccupato per come alcune derive dell’attuale ricerca genetica possano veicolare certi modelli a livello accademico, e di essere anche fermamente convinto che esista una possibilità di assoluta evoluzione dialettica tra una società dei vivi affrancata alla comunità dei morti.
«Quella dell’archeologo è una navigazione perigliosa in acque tranquille dove si alternano tempeste, - sostiene Stiglitz - non è certo una vita facile. Come storici ci muoviamo in un campo che riguarda il nostro essere, il formarsi e il divenire delle nostre identità plurali che si agitano dentro di noi. Apparentemente e falsamente scollegate dall’autorità. Il nostro lavoro si occupa in realtà del qui e ora e di quello che noi vogliamo essere, il nostro è un mestiere di cerca storie. Ci muoviamo nel ritrovamento, nella scoperta e ancora nella riscoperta di persone in carne e ossa, persone che riverberano nella loro società al passo con i loro tempi, per niente veicoli di un passato eroico o misero al quale spesso li inchiodiamo; in questo incessante ricercare non scambiamo cocci o muri, scambiamo persone. Come orchi delle favole cerchiamo carne umana, quindi svolgiamo il nostro compito con perizia scientifica, certosina: sforniamo rapporti, cataloghi e libri ma se ci limitassimo a questo saremmo degli ottimi specialisti, non molto diversi dagli insetti organizzati. Il nostro mestiere di ricerca muove o dovrebbe muovere da una metodologia rigorosa che orienta le fonti, nella lotta continua tra noia e esaltazione in cui non sempre è chiaro dove cominci l’una o finisca l’altra, da qui il lungo e faticoso lavoro di scavo e di documentazione.»
Esperto e a suo agio tra i paesaggi funerari fenici nell’oristanese e oltre ne Il tempo dei Fenici, titolo della seconda opera della collana di alta divulgazione per Ilisso, spiega diffusamente come l’assenza dei confini riguardi anche l’archeologia. Ne nascono due sorprendenti passaggi a ridosso della storia della Sardegna: L’isola più grande del mondo e L’isola meticcia.
«Il nostro è un lavoro che tocca la vita degli uomini e delle donne che ci hanno preceduti in questa terra, vite vissute che sono parte importante di una comunità che in quegli stessi luoghi ci vive oggi. Ma se il nostro proporci è quello dei dispensatori di conoscenze che dall’alto della propria torre arringa al proprio popolo incolto, faremmo qualcosa di utile ma, per restare nella metafora degli insetti, saremmo come grilli parlanti: ruolo importante e fondamentale ma anch’esso limitato. Dobbiamo scendere dall’albero per condividere con la comunità le ricerche e le interpretazioni, le conoscenze, in sostanza il nostro mestiere di archeologi nelle comunità porta a porci domande e ad assumerci responsabilità.
Un piccolo esempio: il ritrovamento anni fa nel nuraghe s’Urachi di una testa di statua di nero: che a San Vero chiamarono Su Morigheddu. La domanda dell’archeologo di fronte al rinvenimento sarà: “che ci faccio qui?” Un nero a San Vero 2400 anni fa. A questa domanda se ne affianca un’altra: “che ci fa un nero a San Vero oggi?”. A distanza di millenni la domanda è la stessa e anche la risposta: “sono a casa mia”. L’archeologia che non sa porsi domande è un’archeologia funzionale al potere, uno strumento di dominio, è un oscillare tra archeologi indifferenti alla società nella quale vivono, come insetti specializzati, e archeologi al servizio del colonialismo di ieri e di oggi.
Ancora oggi nel 2020 esiste un’archeologia coloniale se pensiamo alle emissioni di scavo del così detto \"Terzo mondo\". Siamo archeologi se siamo partecipi alla vita delle comunità nelle quali operiamo, dalle battaglie per la salvaguardia dei beni archeologici agli impegni civili per una società democratica. Come archeologi abbiamo gli strumenti da mettere a disposizione per l’analisi e la soluzione dei problemi attuali. Pensiamo all’immigrazione, alla libera auto determinazione dei destini. Se ci limitiamo a fare i grilli parlanti saremo indifferenti o chiusi o peggio complici di un potere che sfrutta ideologicamente il nostro passato strumentalizzandolo. In Sardegna è sempre più evidente oggi l’uso politico e privato dell’archeologia.»
Diventando archeologo di comunità Alfonso Stiglitz traccia idealmente un’idea di percorso in divenire che, nei numerosi interventi nella sua terra, suggerisce riflessioni ispirate al poeta Konstantinos Kavafis, parla di un popolo di migranti, di viaggiatori del Mediterraneo e oltre dando risalto all’evidenza che tutti noi siamo Barbari.
Esperto di stratificazioni culturali e radicato nel suo territorio Alfonso Stiglitz ha la disinvoltura necessaria per citare un filosofo a suo uso e consumo, divertendosi a creare uno slogan per archeologi di comunità, quelli che operano in verdi pascoli, una frase da scrivere sui muri e, auspica, «possibilmente non del mio palazzo», la frase è: “dateci una storia e vi cambieremo il mondo”.
Anna Maria Turra