“Io sto con Paolo” commuove Sanremo
Io sto con Paolo non è solo il titolo di una canzone presentata da Paolo Palumbo, 22 anni di Nuoro, affetto da Sla intorno alla mezzanotte nella seconda serata di Sanremo, ma è diventata uno slogan all’interno di un festival che mai come quest’anno sta forzando sul divisivo che sta tra le parole.
Sì, perché è alle parole che viene affidata l’urgenza del messaggio di Paolo che, senza più la capacità di parlare, attraverso l’utilizzo di un comunicatore vocale guidato con gli occhi, si presenta su di una sedia a rotelle, indossando un completo scintillante oro e nero. La canzone era stata esclusa da Sanremo Giovani ma Amadeus, direttore artistico e presentatore, l’ha ugualmente voluta proporre al grande pubblico del 70° Festival di Sanremo. Accompagnato sul palco dal rapper Kumalibre, nome d’arte di Cristian Pintus, dal fratello Rosario e dal maestro Andrea Cutri, spiazza con la semplicità dilaniante di una presa di posizione difficile quanto necessaria.
Paolo Palumbo ha scritto il testo del brano interpretato dal rapper poi, alla fine dell’esibizione canora, è una voce fuori campo a interpretare il messaggio di Paolo Palumbo che spiega la volontà di essere sé stesso, senza rinunciare al sogno di un’esistenza con quel che la vita gli dà.
«Ho affrontato una crisi respiratoria, quando mi sono risvegliato ho riflettuto sulla fortuna di essere vivi. Avete fatto tutto quello che potete per essere felici? Avete detto tutti i ti voglio bene? Date al mondo il lato migliore di voi.»
Paolo Palumbo è anche uno chef, un cantante e un rapper e a soli 22 anni, da quattro, sta lottando con la sclerosi laterale amiotrofica o Sla, chiamata anche malattia di Lou Gehrig dal nome di un giocatore di baseball che, contraendola nel 1939, attirò l\'attenzione pubblica portando anche la ricerca a riflessioni e guadagni importanti. È anche detta malattia di ‘Charcot’ o ‘dei motoneuroni’ ed è neurodegenerativa e progressiva.
La musica rap ha una ritmica stilizzata, comunemente accompagna il disagio delle periferie giovanili, ne dilata le complessità in un discorso sincopato tradotto in forma di rime, senza melodie quasi a scandire meglio denunce sociali o provocazioni di un mondo in cerca di senso; anche in questo caso il testo della canzone si occupa di un limite:
«Nella vita di ognuno di noi c’è un sogno da realizzare
dicono però per avere ciò che vuoi devi lottare
non me la sento proprio di lasciarmi andare
perché se esiste una speranza ci voglio provare.Mi chiamo Paolo ed ho 22 anni e ho la Sla
l’ho scoperto quattro anni fa
mi ha levato tutto tranne la vitalità
c’è chi mi giudica con troppa cattiveria
come se mi divertissi a star seduto tutto il giorno su una sedia.Il mio corpo è diventato una prigione
al di la delle sbarre ci arrivo usando gli occhi e l’immaginazione,vorrei camminare, mangiare, bere, parlare
guarire in fretta, una famiglia amici da baciare.»
A fine esibizione ringraziare sul palco il dream team è per Paolo Palumbo non solo l’atto dovuto ma il gesto che genera una nuova dimensione, come se la guarigione fosse a portata di mano o come se si trattasse in modo identico e universale sia la Sla sia la vita. Di certo c’è che la trasmissione Rai è in mondovisione e nello sguardo del fratello non c’è alcun compiacimento, solo l’emozione pura, è un bel gioco tra amici, spiegato meglio da Paolo nel passaggio del testo che segue: «Faccio un rumore in silenzio perché ho un carattere e do speranza ad ogni malato in lacrime, ho una madre, un padre che adoro e un fratello che mi presta gambe e braccia e non mi lascia mai da solo.»
Una variabile possibile della sfida più difficile che riguarda ognuno: quella di non abbandonare il gioco.
«Sono la montagna che va da Maometto
pur restando disteso nel letto
per volare mi bastano gli occhi
quelle volte che il mondo sta stretto
sono la montagna che va da Maometto
pur restando disteso nel letto
per volare mi bastano gli occhi
quelle volte che il mondo si è spentoNella vita di ognuno di noi c’è un sogno da realizzare
dicono però per ottenere ciò che vuoi devi lottare
non me la sento proprio di lasciarmi andare
perché se esiste una speranza ci voglio provareCredo e recito il Rosario
ed è proprio lui a tenere lontano il mio sicario.»
E a dichiarare l’assoluta dipendenza dal fratello Rosario, che dopo la diagnosi decide di mollare tutto il resto e diventare strumento e sostegno, lo fa con una gratitudine che è devozione, la stessa che sembra sostenere a tratti l’intera città di Nuoro.
Anna Maria Turra