Tutti pazzi per il Camp
From Sun King to Drag QueenAnna Wintour
Tutto cominciò nella notte dei tempi, e forse era il tempo degli antichi Greci. Ma fu con Filippo d’Orléans, il fratello minore del Re Sole, il celebre “Monsieur” che amava travestirsi da pastorella e dare feste sfrenate – nonostante la prima moglie Enrichetta d’Inghilterra, e la seconda Elisabetta Carlotta del Palatinato – che il fenomeno entrò a corte con tutti i suoi eccessi, piume, tulle e sete sgargianti.
Nel ritratto di Pierre Mignard, che il 9 maggio ha inaugurato la nuova mostra Camp: notes on fashion al Metropolitan Museum of Art di New York , Filippo d’Orléans sfoggia un eccentrico fiocco rosso al collo del tutto identico, nella forma e nelle proporzioni, a quello che ha aperto la sfilata A/I 2019-2020 di Fendi, l’ultima disegnata da Karl Lagerfeld.
Questo gran “fantasma dei camp passati”, come lo definisce il curatore della mostra e direttore del Costume Institute Andrew Bolton, guida la prima parte della mostra, insieme ai dandy vittoriani, ai riferimenti al Lady Windermere’s Fan di Oscar Wilde, a Christopher Isherwood e alla letteratura che fino agli anni Cinquanta del Novecento è stata influenzata dal linguaggio delle arti decorative.
La seconda parte della mostra è dedicata al ruolo della moda come mezzo evolutivo del concetto di camp nelle sue espressioni più stravaganti, grottesche e ironiche, a partire dagli anni ’60, quando Susan Sontag con il suo saggio Notes on Camp traghetta l’amore per l’innaturale, l’artificio e l’eccesso nella società, spesso però utilizzando il termine per descrivere la comunità omosessuale.
Il concetto oggi si è ampliato e irrompe con sensuale eccentricità nella moda contemporanea, trovando espressione in Gucci (main sponsor della mostra insieme a Condé Nast), e poi in Balenciaga, Prada, Demna Gvasalia, Marc Jacobs, Virgil Abloh, Franco Moschino, Thom Browne, Jean-Charles de Castelbajac, John Galliano, Christian Lacroix, Karl Lagerfeld, Charles James, Stephen Jones, Victor & Rolf, Vivienne Westwood, Charles F. Worth, Jean Paul Gaultier, Yves Saint Laurent, Gianni Versace e tanti altri. I 250 abiti in mostra al Met per Notes on Camp spaziano dal “bouquet dress” all’abito di piume di struzzo con le farfalle di Jeremy Scott per Moschino (“il re del camp”, secondo Bolton), passando per creazioni assolutamente spettacolari.
Ma in poche parole cos’è il camp e cosa non è? Qui ci avventuriamo su un terreno scivoloso, perché ogni trend-setter, esperto di moda e sociologo vuol dire la sua: dalla definizione generica di “uso deliberato, consapevole e sofisticato del kitsch nell’arte, nell’abbigliamento e negli atteggiamenti” al punto di vista di Sontag, secondo cui “l’essenza del camp è l’amore per l’innaturale, l’artificio e l’esagerazione”. Etimologicamente “camp” viene dal francese “se camper”, che significa “atteggiarsi”, e fu usato per la prima volta nel 1671 in una commedia di Moliére.
Il presidente del Met, Max Hollein, sostiene che “la natura dirompente del camp e la sua capacità di sovvertire i valori estetici moderni siano stati spesso banalizzati, ma questa mostra rivelerà la sua profonda influenza sia sull’arte accademica sia sulla cultura popolare”. Pertanto ha accolto con entusiasmo l’idea di Andrew Bolton, che afferma: “stiamo attraversando un momento di camp estremo e perfino la cultura ufficiale si è convinta che quanto aveva sempre liquidato come ‘vuota frivolezza’ in realtà è diventato uno strumento politico molto sofisticato e potente, specialmente per le culture emarginate. Che si tratti di un’accezione pop, queer o politica, credo che Trump sia la più evidente figura camp attuale” “In questi momenti così confusi la moda può essere un mezzo molto potente per trasmettere idee complesse e sono partito da uno dei significati che Sontag dava al camp, e cioè quello di ‘fallimento della serietà’”.
Con la sua estetica visionaria e spavaldamente allucinata Gucci non poteva che essere uno degli artefici della mostra, che, grazie allo stilista Alessandro Michele, ha dato vita a un mondo di contraddizioni estremamente contemporanee. “Ci sono enormi equivoci sul vero significato di camp. Per me significa davvero la capacità unica di combinare l’arte alta e la cultura pop, ed è l’opposto del kitsch. Sono convinto che la mostra del Met darà un significato contemporaneo alla prospettiva indicata da Sontag”.
E a conferma del successo e della popolarità del fenomeno il 6 maggio si è svolto a New York il Met Gala 2019 , il galà di beneficenza annuale organizzato da Vogue Us e dal Met. Agli invitati all’evento inaugurale è stato chiesto di rispettare un dress code a base di “studied triviality” (studiata frivolezza) per sfilare sul red carpet, prendendo ispirazione dagli abiti camp esposti al Museo. Il galà di quest’anno, con la scenografia teatrale rosa confetto firmata da Jan Versweyveld, è stato organizzato come sempre dalla direttrice di Vogue Us Anna Wintour: a presiedere la serata era Lady Gaga, trionfo del camp in ogni sua espressione (ha sfilato sul tappeto rosso con ben quattro cambi d’abito uno dentro l’altro), la tennista Serena Williams e il cantante Harry Styles.
E poi una passerella fra le più eccentriche e divertenti di sempre ha visto sfilare fra i tanti Jared Leto, Cardi B, Ezra Miller, Kim Kardashian, Katy Perry, Lucy Boynton, Lupita N’Yongo, Naomi Campbell, Billy Porter e la regina delle drag queen, RuPaul, che si è presentata vestita da uomo in un completo rosa zebrato di paillettes con tanto di muso a mo’ di spalla e criniera di piume.
“È troppo di tutto, troppe paillettes, troppe rouche, troppe piume. È la sovversione dello status quo, ma anche generosità, munificenza”, conclude Andrew Bolton, mentre per il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, uno dei “padrini” dell’iniziativa, quelle quattro lettere “ci insegnano nella loro banalità quanto sia importante sentirsi liberi di esprimersi attraverso il modo di vestire”.
Il camp esce finalmente dalla clandestinità e trova un suo posto d’onore nelle kermesse della moda e del costume contemporaneo.
Nathalie Anne DoddCredits
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